Guardiamoci in faccia: lo diciamo ogni volta che vogliamo che qualcosa sia ben chiaro. Perché il viso esprime – più delle parole – i nostri sentimenti e lascia trasparire le vere intenzioni. Così, in un discorso, quando si vuole dimostrare a qualcuno la propria sincerità, lo si invita a guardarci in viso.
A CHE COSA PENSI? Abbiamo la mimica facciale più espressiva di tutto il regno animale: smorfie, sguardi, segni d’intesa ci compaiono in faccia continuamente, anche quando non ce ne rendiamo conto. Inoltre, molte espressioni come il sorriso, il cipiglio, la risata, il broncio si possono facilmente simulare per lanciare un segnale ai nostri simili. Un volto così mobile rende possibile la comunicazione anche senza le parole. Non a caso, abituati alla mimica occidentale, i primi viaggiatori in Giappone si chiedevano se gli abitanti di quelle isole provassero i loro stessi sentimenti solo perché erano molto più bravi a mantenere il viso impassibile.
Del resto, guardarsi conviene: le parole non possono bastare. Tant’è vero che per le comunicazioni brevi via messaggio sono state inventate le emoticon: “faccine” che segnalano lo stato d’animo di chi scrive e che possono dare a una frase un significato del tutto diverso.
A ME GLI OCCHI. Ma perché sapere “che faccia fa” un’altra persona è così importante? Perché il cervello umano è una macchina per connettersi con gli altri: è modellato per leggere in modo veloce, efficace e automatico la mente altrui. Una capacità che hanno anche molti altri animali (soprattutto i primati), ma che solo nella nostra specie si è sviluppata così tanto. Osservare le espressioni facciali serve proprio a decifrare meglio il pensiero di altri individui. Cominciando dagli occhi, che non a caso hanno la sclera bianca per far capire dove si dirige il nostro sguardo. Se sappiamo dove un’altra persona sta guardando, capiamo che cosa sta catturando la sua attenzione e possiamo indovinarne le intenzioni o addirittura anticipare le sue azioni. Gli scienziati hanno scoperto infatti che se osserviamo una persona che gira lo sguardo verso qualcosa di abbastanza piccolo da essere tenuto in mano, si attivano nel nostro cervello le stesse zone che useremmo se a prendere l’oggetto fossimo proprio noi.
Lo stesso vale per le emozioni: se una persona ha paura, le palpebre si aprono e si vede più sclera (più “bianco degli occhi”), nella felicità invece si stringono e il bianco diminuisce.
Alcuni esperimenti hanno dimostrato che bastano questi deboli segnali perché da una zona del cervello, l’amigdala, parta “l’ordine” che ci induce a provare a nostra volta timore o contentezza. Secondo il celebre neuroscienziato Antonio Damasio, quando si osserva qualcuno provare una emozione è come se quella stessa emozione la sentissimo anche noi (nel cervello). Senza questo meccanismo-specchio potremmo vedere le emozioni ma non “capirle”. Del resto gli psicologi hanno spesso osservato che durante una conversazione tra due persone si tende a imitare, in modo appena accennato, le espressioni dell’altro.
PUPILLE DILATATE. Dagli occhi il nostro cervello assorbe anche un’altra informazione: la dimensione della pupilla, che è regolata dal sistema nervoso autonomo, lo stesso che controlla la frequenza cardiaca o il ritmo del respiro. La pupilla si dilata e si restringe come reazione a diverse emozioni, sia positive sia negative. Se la persona con cui stiamo parlando ha le pupille dilatate, ci sta ascoltando con interesse, se le ha strette invece non è d’accordo o non sta facendo attenzione alle nostre parole. Per questo, chi ci guarda con le pupille larghe ci appare più gradito, anche se non sappiamo perché. Se poi le pupille sono molto grandi potrebbe addirittura essere molto interessato anche in senso sentimentale. Ed è stato verificato che se si guarda una persona con le pupille dilatate anche le pupille dell’osservatore si aprono. Insomma, ci fa piacere che qualcuno ci guardi con piacere: è questa la base della socialità.
In ogni caso, il riconoscimento delle espressioni facciali è una faccenda complessa per il cervello: «Non va dimenticato che il volto cambia drasticamente: quando per esempio qualcuno ride, la conformazione di occhi e bocca è molto diversa da quella di una faccia tranquilla. Eppure riconosciamo lo stesso quella persona. E contemporaneamente leggiamo la sua emozione: è contenta», racconta Maria Ida Gobbini, neuroscienziata del Dipartimento di Medicina sperimentale all’Università di Bologna. «Per arrivare a questa conclusione il cervello richiama tutte le informazioni che ha su quell’individuo: che posizione occupa nella nostra cerchia sociale, che tipo di approccio ha con gli altri, che visione ha del mondo. E si attivano proprio le regioni cerebrali deputate alla “Teoria della mente”, vale a dire quelle che ci permettono di capire che cosa passa per la testa altrui».
Comunicare le emozioni col volto è così importante che, come ha provato una recente ricerca condotta all’Università di Baltimora, negli Usa, i pazienti con paralisi facciale, che quindi non possono esprimersi attraverso le emozioni del viso, vengono ritenuti meno attraenti e desiderabili come partner.
Che le espressioni siano dunque un segnale, fondamentale da leggere ma anche da esprimere, è certo. Un segnale molto antico: il sorriso nervoso segno di ansia è comune anche tra gli scimpanzé e serve proprio per rabbonire un possibile nemico.
FACCE NEL PANCIONE. Segnalare sul viso il proprio “stato interno”, del resto, è un istinto innato: già dopo due e tre giorni di vita i neonati distinguono un volto contento da uno triste e verso i 2-3 mesi sono in grado di riprodurre sul proprio viso le espressioni emotive che vedono sul volto materno. Anche i bambini nati ciechi sorridono, si accigliano, fanno il broncio quando sono contrariati. Ma manifestano anche altre espressioni fondamentali come per esempio la sorpresa, che fa loro alzare le sopracciglia.
In realtà, le espressioni del viso dipendono da due diverse vie nervose che provengono dal cervello: una di queste è volontaria, l’altra no. «Per poter produrre un’espressione “apposta” è fondamentale averla vista. Un nostro studio su persone nate cieche dimostra che se si chiede loro di produrre una espressione, per esempio felice, o rabbiosa, il risultato non è riconoscibile. Ma naturalmente queste persone riescono a fare queste “facce” quando l’emozione la provano davvero. Non sono cioè in grado di mentire con il volto», fa notare Gobbini.
LE SCOPERTE DEGLI SCIENZIATI. La ricerca, infatti, ha ormai identificato i segnali mimici corrispondenti alle varie emozioni e ai mix tra emozioni diverse. Secondo gli studi di Paul Ekman, che negli anni Sessanta visse a lungo in una regione montagnosa della Nuova Guinea a contatto con tribù di cacciatori e raccoglitori, le cosiddette emozioni base (sorpresa, paura, disgusto, rabbia, felicità e tristezza) corrispondono a configurazioni specifiche nei muscoli che le esprimono e che sono innate, spontanee (le espressioni si generano senza che ne siamo consapevoli) e universali (sono le stesse in tutte le culture). Anche eccitazione e vergogna sembrerebbe che si possano leggere in viso abbastanza facilmente, ma la scienza non ha ancora trovato le prove definitive.
Del resto, la mimica facciale è molto più complessa di quanto possa sembrare: la sorpresa interrogativa, quella sbalordita o quella attonita per esempio mettono in moto i muscoli in modo diverso. Inoltre esistono mimiche specifiche per mix di emozioni, come le espressioni triste-arrabbiata o impaurita-sorpresa (Ekman ha descritto ben 33 di questi mix).
QUANDO C’È TENSIONE. In volto è facile leggere anche i segni di tensione: quando vengono mostrate ad alcune persone ignare le foto di studenti durante un esame e quelle degli stessi studenti a colloquio con il professore in un momento non stressante, le immagini del viso “da esame” vengono da tutti giudicate più tese rispetto alle altre.
E anche se l’espressione delle emozioni base è universale, ci sono differenze culturali su quale sia il momento giusto per esprimerle e quando sia invece il caso di sopprimerle.
In un esperimento classico è stato mostrato a un gruppo di studenti Usa e a un gruppo di studenti giapponesi un filmato di un intervento chirurgico. Le espressioni di disgusto erano le stesse nei due gruppi. Ma se al filmato assisteva anche un professore autorevole dell’Università, le espressioni dei ragazzi giapponesi diventavano impassibili, mentre quelle dei ragazzi americani non cambiavano e continuavano a esprimere disgusto anche in presenza del professore.