Da quando aveva 16 anni Karin Gaudet-Asmus soffriva così tanto durante il ciclo mestruale che spesso era costretta a saltare diversi giorni di scuola ogni mese. Attorno ai 20 anni sono comparsi altri sintomi: nausea, vomito, gonfiore, diarrea ed estrema spossatezza. Per tutti questi disturbi i medici hanno diagnosticato allergie, sindrome dell’intestino irritabile o dell’ovaio policistico, prescrivendo farmaci che praticamente non avevano effetto.
Diversi anni dopo, mentre frequentava la facoltà di legge, ha cominciato ad avvertire un dolore acuto alla spalla, che un fisioterapista ha attribuito al fatto che trasportava troppi libri. A trent’anni circa, Gaudet-Asmus ha avuto difficoltà a rimanere incinta e ha abortito due volte. Adesso, a 39 anni, questa ex avvocatessa del Texas occidentale a seguito di un’infezione alla cistifellea è riuscita a ottenere il tanto desiderato sollievo: durante la preparazione in vista dell’intervento di rimozione dell’organo, presso la Mayo Clinic di Phoenix, in Arizona, Gaudet-Asmus ha ricevuto la diagnosi di endometriosi.
In questa malattia (di cui si stima sia affetto l’11% degli americani di sesso femminile alla nascita e il 10-15% delle donne italiane in età riproduttiva) un tessuto simile a quello che compone il rivestimento dell’utero (l’endometrio, appunto) cresce all’interno del torso. Queste cisti o lesioni possono provocare un dolore lancinante – specialmente intorno al periodo delle mestruazioni – e, talvolta, anche infertilità. L’endometriosi colpisce soprattutto durante l’età fertile, perché il tessuto è sensibile agli ormoni estrogeni. In alcuni casi le lesioni sono superficiali, mentre in altri crescono in profondità e diffusamente, infiltrandosi in uno o più organi e premendo su di essi.
Nonostante la prevalenza di questa malattia, l’esperienza di Gaudet-Asmus è comune: gli studi mostrano che occorrono in media da sette a 10 anni per ricevere una diagnosi corretta. Secondo gli esperti questa situazione sta iniziando a cambiare, soprattutto grazie a un corpus sempre più ampio di ricerche e a un piccolo ma sempre più numeroso “esercito” di chirurghi con una formazione avanzata sulla così detta “chirurgia ginecologica mininvasiva”(MIGS, dall’inglese Minimally Invasive Gynecological Surgery).
Nei due decenni successivi alla creazione di un programma di borse di studio nazionali sulla MIGS, diverse centinaia di medici specializzati hanno imparato a esaminare le pazienti con un piccolo strumento chiamato laparoscopio e a utilizzarlo per rimuovere delicatamente il tessuto indesiderato. Tali procedure chirurgiche avanzate sono essenziali soprattutto per il trattamento dei casi gravi di una malattia che può essere estremamente complessa, spiega Olga Bougie, chirurga specializzata in MIGS e ricercatrice presso la Queen’s University di Kingston, in Ontario.
A Gaudet-Asmus è servita un’operazione chirurgica della durata di sei ore, durante le quali ha rimosso il tessuto dalle numerose lesioni causate dalla malattia alla parete addominale e attorno alle ovaie, all’appendice, all’intestino crasso e al diaframma (probabilmente la causa del dolore alla spalla). Quasi immediatamente i sintomi che l’affliggevano da anni sono scomparsi; ma il sollievo era intaccato dalla rabbia per il ritardo con cui aveva ricevuto diagnosi e trattamento. “Questa malattia ha rubato una parte importante della mia vita”, ha detto Gaudet-Asmus. “Avrei potuto fare così tante cose invece di essere costretta a letto per così tanto tempo”.
Disinformazione, ignoranza e trattamenti inutili
Spesso l’endometriosi non viene riconosciuta nemmeno dai ginecologi, la cui formazione si concentra sulle persone in età riproduttiva; lo afferma Iris Kerin Orbuch, chirurga specializzata in MIGS di Beverly Hills, in California. Uno dei motivi è che i sintomi principali coincidono con quelli di altre malattie. Chi soffre di endometriosi spesso ha perdite abbondanti e dolorose e prova dolore durante i rapporti sessuali: una sintomatologia che compare, ad esempio, anche in presenza di fibromi; mentre gonfiore, costipazione e astenia possono essere sintomi anche della sindrome dell’intestino irritabile.
Kerin Orbuch, inoltre, accusa l’atteggiamento consolidato dei medici di considerare normali i dolori mestruali. Per motivi ancora ignoti, i dottori spesso non considerano l’endometriosi tra le potenziali diagnosi, perciò presumono che la paziente stia esagerando. “Alle donne viene detto che non c’è niente di strano” anche se la sintomatologia è coerente con l’endometriosi, spiega l’esperta.
Nicole Donnellan – medico specializzato in MIGS presso il Magee-Womens Hospital, affiliato con la University of Pittsburgh School of Medicine – spiega che durante il percorso formativo di base in ginecologia ai medici vengono date alcune informazioni scorrette. A lei, ad esempio, è stato insegnato che le lesioni dovute all’endometriosi sono “scure come la polvere da sparo”, mentre in realtà possono essere rosse, gialle, bianche e addirittura trasparenti. Molti medici poi non sanno che per esprimere una diagnosi definitiva è necessaria una biopsia del tessuto in laparoscopia.
Sarebbe utile che i medici conoscessero meglio la causa dell’endometriosi e i motivi per cui la malattia è molto più aggressiva in alcuni soggetti rispetto ad altri, entrambi argomenti ancora poco chiari, aggiunge Donnellan. Al momento, le linee guida per i medici redatte dalla principale istituzione del Paese in materia di ginecologia – ossia l’American College of Obstetricians and Gynecologists – ipotizzano diverse teorie, ad esempio che le cellule dell’endometrio vengano trasportate nel flusso sanguigno o tramite i linfonodi, oppure – convinzione particolarmente diffusa – che si disperdano a causa della cosiddetta “mestruazione retrograda” (che avviene quando il sangue mestruale si muove in senso inverso all’interno del corpo).
Secondo Kerin Orbuch quest’ultima teoria è piuttosto improbabile, visto che alcune persone sviluppano la malattia prima della pubertà e altre continuano a soffrirne anche in menopausa. Ulteriori informazioni sono state ricavate dalle autopsie condotte su alcune centinaia di feti femminili deceduti, nella metà dei quali è stata riscontrata l’endometriosi in fase iniziale: ciò significa che le cellule che provocano le lesioni si depositano ben prima della nascita.
La chirurgia è efficace per molte pazienti
Dopo che la malattia è stata diagnosticata correttamente, in genere i medici provano a ridurre i livelli di estrogeni, soprattutto prescrivendo la pillola anticoncezionale. Donnellan spiega che nelle pazienti affette da forme più lievi ciò può essere sufficiente per alleviare il dolore. Ma per stabilire se si tratta di un rimedio davvero efficace servono ulteriori studi, come segnalato da una revisione pubblicata nel 2018 nel Cochrane Database of Systematic Reviews.
Se la terapia ormonale non funziona, spesso i medici consigliano l’ablazione, una procedura in cui si utilizza un dispositivo laser o di cauterizzazione per eliminare il tessuto endometriale. Per i casi lievi in aree facili da raggiungere “l’ablazione può essere sufficiente”, hanno concluso gli esperti della Cleveland Clinic in un editoriale del 2018 apparso nella rivista Journal of Minimally Invasive Gynecology. Tuttavia, una volta bruciate, spesso le lesioni ricrescono, afferma Megan Wasson, responsabile di ginecologia medica e chirurgica presso la Mayo Clinic, nonché chirurga esperta di MIGS che ha seguito Gaudet-Asmus. “L’endometriosi è come una pianta infestante: se ti limiti a bruciare le foglie, le radici restano vive e la pianta ricresce”, spiega.
Ecco perché Wasson e altri considerano come standard di riferimento un intervento chirurgico detto di escissione, che rimuove tutte le tracce della malattia. “A questo punto l’escissione è lo standard di cura”, afferma Wasson. Questo tipo di intervento è preferibile per le pazienti con malattia in fase avanzata (chiamata endometriosi profonda infiltrante), in cui il tessuto malato risulta infiltrato o attaccato ad altri organi. “È un po’ come una supercolla”, spiega Donnellan; per questo i team di chirurghi specializzati nei vari organi spesso devono rimuovere completamente questa sorta di rete appiccicosa.
Negli ultimi dieci anni le ricerche hanno iniziato a documentare l’efficacia dell’escissione. Uno dei principali studi ha seguito quasi 200 donne che sono state sottoposte a escissione o al trattamento di ablazione tramite laser, e ha rilevato che dopo cinque anni le pazienti sottoposte a escissione presentavano livelli più bassi di dolore durante i rapporti sessuali e un minor bisogno di ulteriori trattamenti medici. Tuttavia, una revisione degli studi pubblicata nel 2020 auspicava la realizzazione di studi più ampi prima di trarre conclusioni definitive.
Un’iniziativa attualmente in corso ha l’obiettivo di confrontare i risultati relativi a donne affette da endometriosi lieve sottoposte a escissione chirurgica con quelli di pazienti che non hanno ricevuto trattamenti chirurgici né procedure placebo (ossia in cui sono state operate ma non è stata rimossa nessuna lesione). Questo studio permetterà ai ricercatori di stabilire se i miglioramenti sono dovuti alla rimozione del tessuto, alle fluttuazioni fisiologiche del dolore o all’influenza della mente sul dolore, spiega Henrik Marschall, dottorando presso la Aarhus University in Danimarca nonché direttore della ricerca. Si prevede che i risultati arrivino nel giro di alcuni anni.
Il modo in cui l’intervento di escissione influisce sulla fertilità delle donne che desiderano avere figli rimane una questione aperta, aggiunge Ted Anderson, ex presidente dell’American College of Obstetricians and Gynecologists ed esperto di endometriosi del gruppo. “Con un intervento più esteso c’è il rischio di provocare danni collaterali ai tessuti e che si formino aderenze che potrebbero avere un impatto negativo sulla fertilità”, aggiunge l’esperto. Tuttavia, in un piccolo studio condotto di recente, donne sterili affette da endometriosi grave sottoposte a chirurgia prima di una fecondazione in vitro hanno presentato una percentuale di successo doppia rispetto alle donne che si sono sottoposte direttamente alla tecnica di riproduzione assistita.
Una cura universale non esiste
Negli ultimi anni i medici specializzati in MIGS e i rappresentanti dei pazienti si sono impegnati per aumentare la visibilità dell’endometriosi. Kerin Orbuch compare in un documentario intitolato Below the Belt (Sotto la cintura in italiano) che verrà trasmesso sulla televisione pubblica statunitense PBS alla fine di questo mese. Invece, il gruppo Facebook Nancy’s Nook Endometriosis Education fondato da Nancy Petersen – infermiera in pensione che ha lavorato con un pioniere dell’escissione – parla di questo tipo di intervento ai suoi 170.000 membri. Qui in Italia, poi, la battaglia sui social network condotta dalla modella e attivista Giorgia Soleri – che soffre di vulvodinia ed endometriosi dall’età di sedici anni – le ha permesso di dare grandissima risonanza ai disturbi di cui soffre, tanto che la stessa è riuscita a parlare di tali “malattie invisibili” davanti alla Camera dei Deputati.
Ma anche per coloro che ricevono il miglior trattamento disponibile, purtroppo, la chirurgia non sempre è risolutiva. Anche se molte persone, tra cui Gaudet-Asmus, hanno ottenuto un notevole miglioramento anche solo dopo una singola procedura, altre pazienti soffrono di una versione più persistente della malattia e necessitano di passaggi in sala operatoria frequenti.
È il caso di Jami Carder. Infermiera professionale di 51 anni di Yarmouth Port, in Massachusetts, nel 2019 si è sottoposta a un importante intervento di escissione condotto da uno specialista di MIGS dopo decenni di fallimenti terapeutici con pillole anticoncezionali e infine un’isterectomia. Un anno dopo il dolore si è ripresentato, e la donna ha avuto bisogno di una seconda operazione per rimuovere le nuove lesioni attorno al colon e al diaframma.
Sei mesi più tardi il male è tornato a farsi sentire, e poco dopo Carder ha iniziato a soffrire di fitte molto forti causate dalla peristalsi nel periodo del ciclo mestruale. Ciononostante, l’infermiera si dice contenta di essersi sottoposta ai due interventi. “Prima provavo davvero tanto dolore, dalle ginocchia al petto, e adesso non è più così. In generale sto molto meglio”, racconta Carder.
In uno studio di 16 anni su una coorte di popolazione molto ampia (85.000 donne canadesi) un buon 20% ha avuto bisogno di un ulteriore intervento dopo la prima escissione. Solo nel 10% dei casi, chi aveva subito un’isterectomia ha poi avuto necessità di un’altra operazione. Tuttavia, l’isterectomia non è di aiuto per le pazienti la cui endometriosi non coinvolge l’utero, perciò in tali casi il dolore rimane; inoltre, la rimozione è un intervento radicale, inadatto per le donne che desiderano avere figli. Vi si può ricorrere specialmente per alleviare il dolore causato da una condizione correlata, l’adenomiosi – in cui il tessuto endometriale si infiltra nelle pareti muscolari dell’utero – condizione che spesso si manifesta in persone già affette da endometriosi, spiega Olga Bougie, autrice principale dello studio.
Anche quando non risulta necessario un nuovo intervento, dopo l’escissione molte donne affette da tempo dalla malattia hanno bisogno di numerosi cicli di fisioterapia o di altri trattamenti per compensare gli anni in cui il tessuto endometriale è rimasto attaccato ai vari organi e al pavimento pelvico, deformandoli. Altre continuano ad assumere farmaci per tenere bassi i livelli ormonali.
Per chi soffre di endometriosi è fondamentale parlare con un esperto e ricevere consigli sul trattamento più adatto, afferma Donnellan. “L’ideale sarebbe rivolgersi a un chirurgo MIGS, anche se alla fine l’intervento non è necessario”, dice. “Talvolta mi considero una sorta di ‘medico di base’ della pelvi”.
Fonte: National Geographic Italia